Giggiola...


Quel giorno andai in negozio da lei, lavorava in una bottega d’intimo: “Pianeta mutanda”, faceva la commessa, mi disse che si chiamava Giggiola.
Era uno schianto, ricordo che dovette uscire dal bancone per andarmi a prendere un paio di mutande, stava con dei pantaloni attillati e aveva una trazione posteriore da venti minuti di applausi.
Gli chiesi se veniva a cena, e mi disse no, un pranzetto domenicale no, colazione insieme, no, un caffè, no, allora mi soffermai a vedere le mani, se aveva sui palmi, qualche briciola di pagnotta perché se la tirava un po’, avevo paura che se la stuccasse.
Poi mi dissi …
Ho la va o la spassa.
Belle le tue gambe a che ora aprono?”.
Si mise a ridere.
“Hai uno splendido sorriso”.
“Grazie”
“Ti va di uscire stasera?”.
“Va bene”.
Se era stagione, mi dicevo che sono un figo, che tattica, so mejo di Guardiola.
Ci fissammo appuntamento davanti un locale lì vicino: “La zoppa che mixa”, famoso locale house, della riviera adriatica, l’autunno era in pieno autunno, io nono riuscivo a togliermi dalla testa Geppi, si dava delle arie ma in una donna c’è di più ma non è che bisogna sempre sapere tutto.
Ci siamo.
Venne con indosso un paio di pantaloni in pelle, una maglietta con una scollatura e dentro due chili di felicità, con un tacco dodici che vedevo il mignolo un po’ fuori dalla scarpa che dondolava come se fosse senza vita, veniva verso di me con fare deciso e uno sguardo che mi diceva:
Stasera paghi tu.
Mi misi la mano nel portafoglio e gli diedi  un’occhiata, avevo solo trecento euro, avevo paura che non me la offrisse, (me la dai ha meno classe) forse non erano abbastanza.
Entrammo nel locale e andammo nel privè, ordinammo da mangiare, mi disse che era vegana.
“Si hai ragione, cerca gente che si nutre di cadaveri non la capisco, mi fanno pena”, dissi con l’espressione schifata.
Botta che dicevo che mi piace la ciccia, l’unica carne che avrei toccato, sarebbe stata quella della fettina che mi sarei cucinato a casa.
Adesso dovevo stare attento a come parlavo, perché il vegano può essere pericoloso, poi ripensai a Geppi ma se questa è vegana, magna, i fagioli, e se magna i fagioli anche lei ci ha Albano nel cu lo, ma non volevo mettere le mani avanti, al limita gliele avrei messe addosso.
Comunque quella sera non mangiò fagioli si fece cucinare del tofu con qualcos’altro, io, però mi feci portare una brocca d’acqua, tanto il sapore era uguale, ricordo quando lo comprai la prima volta, mi sentii bambino, sembrava un pezzo di pongo.
Masticava quel tofu con la stessa energia, di quanno se magna un pollo arrosto, lo confesso l’elefante che è in me, faceva capolino, ero talmente ingrifato che ordinai del riso in bianco.
Continuavo a guardarla nascondendo la lingua di Fantozzi.
“Quanto sei bella, ma quando, ti guardi allo specchio come fai a non metterti le mani addosso?”
Si mise a ridere, buon segno.
La cena intanto volgeva al termine.
“Ti va di fare una passeggiata”, mi disse toccandomi la mano che tenevo appoggiata al tavolo.
Ne che tante volte è romantica?
“Il cielo è stupendo, guarda le stelle, sembrano addobbi natalizi e la Luna brilla come i tuoi occhi”.
“Come sei romantico”.
Se te pio te sdrumo.
“Sono stanca andiamo a casa mia?”
No, volevo passeggiare tutta la notte.
Abitava vicino a casa mia, mi disse che ci conoscevamo, qualche mese prima, voleva chiedermi di uscire ma pensava che gli avrei detto di no perché pensava che fossi un tipo scontroso.
La guardai attentamente, tanto che mi presi una bicicletta davanti.
“Poverino ti sei fatto male”.
“No, è che so scontroso”.
Lei rideva ma io avevo preso una botta al ginocchio, fortuna che il dolore non lo sento, ma in quel momento ero entrato in empatia con la rotula, e soffrivo in silenzio, poi arrivammo davanti casa, aprì il portone e mi mostrò uno sculettamento che mi mise la gioia, dentro al cappottino d’Adelmo.
Salimmo a casa sua, devo dire che aveva un bell’appartamentino, viveva sola e la cosa aveva un che d’interessante.
“Mi piaci, sai”, disse baciandomi.
A quel punto che fai, nall’unghi le mani?
Mamma mia, quanta robba, mi so fatto n’abbuffata di carne.
“Andiamo in camera mia mi è venuta voglia”.
Io è da casa mia che ce l’ho, era ora.
Arrivammo in camera sua e lei cominciò a spogliarsi rimase con l’intimo, aveva due meloni che m’era venuta voglia di frutta, poi con fare provocante si tolse i tacchi.
Dietro di lei c’era lo specchio, appena si tolse la calzatura fu come vedere due bistecche fiorentine che inciampavano sulle cosce, mi prese male mi era crollato un mito, ma chiusi un occhio, tanto è dietro non la vedo, la faccio spostare sennò so specchio me rovina la serata.
Venne poi il turno del reggitette, se lo tolse e lì i miei occhi diventarono lucidi.
DU SUSINE!
I meloni erano un ricordo, un dolce ricordo, la voglia di frutta mi passò e mi venne voglia di du braciole di maiale, cominciavo a pensà che gli dovevo, di pe annammene e non fargli pensare che andavo via per quello che vedevo.
Poi si tolse il perizoma e li ebbi un sussulto.
Ma che’en parrucchino?
Avete presente il fumetto, Mafalda, mi faceva impressione, non so n’homo di Neanderthal, pensai allora di simulare una chiamata al cellulare.
“Scusa ho il vibra”.
“Pronto”.
“Veramente, ma quando?”.
“Vengo subito”.
“Scusa ma devo tornare a casa, ci sono problemi, peccato proprio adesso che mi stavo eccitando”.
Un pugno in faccia faceva meno male.
Uscì e m’incamminai con il mio minivanmapropriomini co na fame che volevo, staccamme le rote e magnammele, e anche quella sera amo dato na mano de bianco.
Morale della favola … attento aai vegani.


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